O Padre, che affidi alle nostre mani
le meraviglie della creazione e i doni della grazia,
rendici servi operosi e vigilanti,
perché facciamo fruttare i nostri talenti
per entrare nella gioia del tuo regno.
I Vangeli di quest’ultimo tratto dell’anno liturgico riguardano l’attesa del Signore. C’è un ritardo: come viverlo? La parabola dei talenti narra la fiducia di Dio verso di noi: se riconosciuta ed accolta essa ci trasforma la vita. Infatti il brano si legge nella prospettiva escatologica, ma ha un impatto anche sul nostro oggi. Vegliare significa non solo essere previdenti, come le vergini sagge della scorsa domenica, ma essere responsabili nel quotidiano, fedeli nelle piccole cose. Perché il giudizio finale lo si prepara qui ed ora.
Un uomo parte per un viaggio ed affida ai suoi servi il suo capitale affinché lo facciano fruttificare. Se pensiamo che sia un invito alla logica capitalista il racconto può risultare imbarazzante. In realtà non è una lode all’efficienza e neppure un inno alla meritocrazia, visto che ciascun servo riceve secondo la sua capacità. È piuttosto l’appello alla conversione rivolto ai cristiani tiepidi, contenti di quel che sono, paurosi di fronte ai cambiamenti richiesti dalle nuove sfide.
Nel linguaggio comune “talento” è sinonimo di abilità, dote naturale. Qui è piuttosto il deposito della fede, il dono della Parola. I primi due servi raddoppiano la somma ricevuta, il terzo servo la sotterra per non correre rischi. La sua paura nasce dall’immagine distorta che si è fatta del padrone. Il quale lo rimprovera non perché ha fatto del male, ma perché non ha fatto niente! Il cristiano non può spaventarsi di fronte al mondo, perché è “figlio della luce”: la sua forza è l’amore.
Sr. M. Rosangela Bruzzone